domenica 24 aprile 2016
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Come vivere più a lungo? Bastavincere una medaglia olimpica
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Carlos Henrique Raposo: ilfinto calciatore
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Le origini del cavallino rampante
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La prima pista di atleticarettangolare
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Il catenaccio esiste anchenella pallacanestro
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Bergamasco e Italia fanno subitorecord al Sei Nazioni
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L’eroe Barry guida la Costad’Avorio alla vittoria
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Gli imitatori giapponesi chereplicano…l’Atalanta!
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L’altra faccia del XLIX SuperBowl
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Il portiere salva la squadra…segnandoun gran gol
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La storia dello sfortunatoMontandon
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Il portiere goleador segnail 20° rigore

Avere una squadra piena di grandi talenti dovrebbe permettere di vincere ogni torneo. Una squadra composta dai migliori giocatori al mondo dovrebbe essere praticamente imbattibile. Invece una ricerca smentisce questa teoria. Infatti, a quanto sembra, la performance non è direttamente proporzionale al talento: avere tanti campioni in squadra non solo non permette di aumentare le possibilità di vittoria ma addirittura potrebbe diminuirle.

I ricercatori hanno condotto cinque studi separati sulla correlazione tra talento e performance delle squadre che hanno messo in evidenza la loro non linearità. Due studi hanno confermato che tra la gente vi è l’opinione diffusa che tra il talento e la performance ci sia una correlazione diretta e crescente: la stragrande maggioranza degli intervistati dà per scontato che più giocatori di talento si hanno a disposizione, più aumenta la possibilità di vincere.

Gli altri tre studi, condotti sul football americano, sul basket e sul baseball, hanno dimostrato che la correlazione tra talento e performance non è lineare. I ricercatori hanno evidenziato come all’aumentare delle stelle in squadra la curva delle prestazioni aumenta, ma solo fino ad un certo punto dopo il quale la curva prima si appiattisce (cioè un aumento di talento non comporta benefici) e poi le prestazioni iniziano addirittura a calare.

Il motivo è presto detto: i giocatori più talentuosi sono portati a fare prestazioni a livello personale per cercare di apparire più degli altri a discapito del coordinamento tra i giocatori che ovviamente va a ridursi. In parole povere, avere tanti giocatori di talento non favorisce il cosiddetto gioco di squadra. L’effetto è molto evidente in sport in cui i giocatori devono interagire strettamente tra loro come il football americano e il basket o il calcio, che rientra nella stessa tipologia. Questo effetto è invece molto minore in sport in cui l’interazione tra gli atleti è minore, come il baseball.

Dickie Borthwick nasce nel 1935, è un ingegnere in pensione e nonostante la sua età gioca ancora a calcio. Con i suoi 80 anni è diventato il più vecchio calciatore inglese e forse del mondo. La sua è sicuramente una storia straordinaria.

In carriera ha giocato in più di 10 squadre, disputando oltre 1600 partite e segnato più di 400 gol. Il suo ruolo preferito è stato sempre l’ala ed ancora oggi gioca in quella posizione nei Wyke Rangers Veterans. Dickie un campione non lo è mai stato ma grazie alla sua longevità ha conquistato le copertine di tutti i giornali sportivi. Ha sempre militato in club dilettantistici ed il punto massimo della sua lunghissima carriera l’ha raggiunto nello Sherborne Town che gioca ben 10 categorie al di sotto della Premier.

La sua passione per il calcio è iniziata a 12 anni quando ha vestito per la prima volta la maglia del Ross-Shire, in Scozia, nel 1947 e da quel momento non ha voluto più smettere. Ha dichiarato in un video che omaggia la sua passione: “Il calcio mi ha dato molti amici. Sto con i giovani tutto il tempo a giocare a calcio. Alla mia età! Cosa potrei chiedere di più?”.

L’avversario più difficile che Dickie ha dovuto affrontare è stato il cancro che gli fu diagnosticato nell’ottobre del 2012. La paura fu tanta ma dopo soli sei mesi Dickie è riuscito a tornare a correre sui campi da calcio. Nonostante questa sua grande forza di volontà si è concesso una piccola ammissione di debolezza: “Ho perso un po’ di velocità – spiega – ma i miei pensieri sono veloci ed è questo ciò che conta davvero. Ho intenzione di continuare a giocare, le mie gambe e le ginocchia sono ancora buone e robuste”.

Come vivere più a lungo? Basta vincere una medaglia olimpica

È davvero incredibile quello che riescono a fare gli atleti olimpici: il centometrista può tagliare il traguardo in meno di dieci secondi, il triatleta riesce d’un fiato prima a nuotare poi a pedalare e poi a correre, il saltatore è capace di slanciarsi oltre i 2 metri in altezza… Ma si può dire con certezza che queste persone sono generalmente più in salute rispetto ai “comuni mortali”? Ma soprattutto, vivono di più?

Al riguardo esistono diversi studi che hanno provato a rispondere a queste domande. Un primo studio pubblicato sul British Medical Journal ha analizzato i dati di oltre 15000 atleti che hanno partecipato alle olimpiadi dal 1896 al 2010. Le informazioni così raccolte sono state confrontate con i dati di altri atleti e con quelli del resto della popolazione. Il risultato dello studio è stato sorprendente: gli atleti che hanno partecipato ad una olimpiade ed hanno vinto una medaglia, indipendentemente se oro o argento o bronzo, vivono in media ben 2,8 anni in più rispetto a tutti gli altri atleti e al resto della popolazione.

Un secondo studio ha invece dimostrato che la tipologia di intensità della disciplina non incide sulla durata media della vita dell’atleta. Significa che non c’è differenza nella durata di vita tra atleti di discipline ad alta intensità di prestazione o quelli che praticano uno sport che richiede un dispendio di energie minore come il Golf. Però chi invece pratica il Pugilato, il Rugby o l’Hockey su ghiaccio soffre di un maggior rischio di morte per problemi legati al fisico.

A quanto pare anche Philip M. Clarke, professore di economia sanitaria all’Università di Melbourne (Australia), è rimasto sorpreso dai risultati della ricerca: “Siamo stati un po’ sorpresi dai risultati della ricerca sugli olimpionici. E’ un risultato confermato trasversalmente in tutti i paesi, in tutte le discipline, sport e per ogni tipo di medaglia vinta”. Le spiegazioni a questo fenomeno sono molteplici: collegamento della perfomance sportiva a fattori genetici, la pratica dell’attività fisica, lo stile di vita e anche la ricchezza procurata dalla vittoria di una medaglia che garantisce all’atleta una migliore qualità della vita.

Ma siccome non tutti possono vincere una medaglia olimpica Philip M. Clarke offre un consiglio a tutti i “comuni mortali” per auspicare ad una vita più lunga: “l’unico consiglio che posso dare per migliorare le proprie aspettative di lunga vita è rispettare un esercizio fisico regolare che possa allontanare complicazioni di salute”. Quindi Clarke non fa altro che confermare quelle che sono le regole della salute ben note ai più.

Carlos Henrique Raposo: il finto calciatore

Si può diventare un calciatore professionista e guadagnare tanti soldi senza saper giocare con il pallone? A quanto pare è possibile. Questa è la storia di Carlos “Kaiser”, il più grande furbo della storia del calcio: nonostante fosse negato per il gioco del calcio è diventato un calciatore professionista riuscendo a mascherare con grande abilità la sua incapacità nel gioco del pallone.

Carlos Henrique Raposo nasce a Rio de Janeiro nel 1963 in una famiglia di umili origini. I genitori lo spingono a giocare a calcio sperando che possa diventare un calciatore professionista e renderli ricchi. Anche Carlos sogna di giocare nelle migliori squadre del Brasile ma purtroppo con i piedi è un disastro. Il ragazzo non è proprio capace di giocare a calcio ma ha un altro talento: sa relazionarsi bene con le persone, è socievole, colto e ha una gran faccia tosta. Riesce con facilità a stringere amicizia con chiunque grazie alla sua eccellente retorica ma soprattutto frequenta le persone giuste.

Carlos, nelle serate a Rio de Janeiro, si intrattiene con quelli che di li a poco diventeranno grandi campioni verdeoro: Edmundo, Romario, Bebeto, Renato Gaucho e tanti altri. Queste amicizie diventano il trampolino di lancio per Carlos verso il calcio professionistico infatti si fa aiutare proprio dai suoi amici per convincere i grandi club ad ingaggiarlo. Carlos non sa giocare, è vero, ma è molto sicuro di se e il suo fisico asciutto e atletico, che gli fa guadagnare il soprannome di Kaiser data la sua somiglianza con Beckenbauer, non desta sospetti. Così Carlos ottiene il suo primo contratto da professionista con il Botafogo grazie a Mauricio, uno dei suoi tanti amici.

Ma non basta arrivare in una grande squadra, adesso serve evitare di toccare il pallone con i piedi. Perciò Carlos durante gli allenamenti finge infortuni muscolari o convince i compagni a colpirlo duramente così da terminare con anticipo la seduta e siccome a quel tempo non esistevano le risonanze magnetiche il bluff funzionava perfettamente. A queste furbe trovate si aggiungono poi certificati medici fasulli prodotti da un suo amico dentista. Alla fine della stagione, nonostante non giochi nemmeno una partita, Carlos si trasferisce al Flamengo dove la sua truffa raggiunge un livello superiore: finge di parlare al cellulare con dei presunti dirigenti di club inglesi che sarebbero interessati alle sue prestazioni. Poi si scoprirà che il cellulare era solo un giocattolo e che Carlos non conosceva la lingua inglese.

Per evitare che la stampa, i tifosi e i suoi compagni di squadra indaghino sulla sua truffa organizza abitualmente festini a luci a rosse per tutti. Il piano diabolico di Carlos funziona alla grande e con questo meccanismo gira diverse squadre di calcio anche al di fuori del Brasile: prima va in Messico nel Puebla, poi negli USA ne El Paso per ritornare in Brasile nel Bangu. Riesce persino ad ingannare i dirigenti europei dell’Ajaccio. In Corsica, al momento di presentarsi ai suoi nuovi tifosi, Carlos mette in scena la più grande furberia della sua astuta carriera così da lui raccontata: “lo stadio era piccolo, ma era gremito di gente in ogni posto. Pensavo che dovessi solo farmi vedere dalla folla e salutare, poi vidi moltissimi palloni in campo e capii che ci saremmo dovuti allenare. Ero nervoso, si sarebbero resi conto che non sapevo giocare al mio primo giorno. Entrai in campo e cominciai a scaraventare tutti i palloni in tribuna. Allo stesso tempo salutavo e baciavo la maglietta. Chiaramente dalla tribuna non è tornato nessun pallone…”.

Dopo l’esperienza in Corsica torna in Sud America e continua a girare diversi club: Fluminense, Vasco da Gama, Independiente, America e Guarany de Camaqua. Carlos conclude la sua furbesca carriera all’età di 39 anni dopo essere stato un calciatore professionista per 20 anni e aver messo da parte un bel gruzzolo. Oggi non è pentito di quello che ha fatto e ha spiegato in un’intervista:  “i club prendono in giro moltissimi calciatori, qualcuno doveva pure vendicarli…”. Inoltre la storia di Carlos non è tanto assurda considerando che spesso grandi club hanno in rosa, per un anno o più, calciatori che non mettono mai piede in campo e quindi questi in fin dei conti potrebbero essere tanti Carlos “Kaiser”.

Le origini del cavallino rampante

Il simbolo del cavallino rampante, oggi famoso in tutto il mondo, in origine è appartenuto al maggiore Francesco Baracca, asso dell’aviazione italiana durante la prima guerra mondiale. Infatti il maggiore Baracca faceva dipingere il cavallino rampante sulla fiancata sinistra di tutti i suoi velivoli. Il colore originale del cavallino però rimane ancora oggi un mistero: diversi indizi fanno intendere che all’inizio il cavallino fosse rosso per inversione dello stemma del 2° Reggimento Cavalleria “Piemonte Reale” (un cavallo d’argento sopra uno sfondo rosso) di cui l’asso dell’aviazione faceva parte e sarebbe diventato nero solo dopo la morte del maggiore in segno di lutto.

Comunque qualche tempo dopo la fine della prima guerra mondiale, nel 1923, Enzo Ferrari vince la prima edizione del Gran Premio del circuito del Savio e in quell’occasione conosce il conte Enrico Baracca e successivamente la contessa Paolina Biancoli, genitori del defunto eroe dell’aviazione italiana Francesco Baracca. A seguito dell’incontro, la contessa Paolina regala a Enzo Ferrari una fotografia di suo figlio accanto ad un aereo con il cavallino rampante e gli dice: “Ferrari, metta il simbolo del mio figliolo sulle sue auto, le porterà fortuna”.

Da quel momento il nuovo simbolo della Scuderia Ferrari appare su tutte le pubblicazioni, insegne e carte ufficiali della squadra corse ma non sulle auto perchè erano di proprietà dell’Alfa Romeo che non permise a Enzo Ferrari di mettere quello stemma sulle proprie vetture almeno fino al 1932 quando gli fu concesso di usarlo nella 24 ore di Spa. È interessante ricordare che l’Alfa Romeo con il cavallino rampante vinse in quell’occasione.

Dopo la seconda guerra mondiale, con la fondazione della “Scuderia Ferrari” come ragione sociale, Enzo Ferrari decide di far ridisegnare il cavallino rampante a Eligio Gerosa, uno tra gli incisori più apprezzati del secolo scorso. Il nuovo progetto modifica ampiamente il simbolo originale: il cavallino è più snello e riproporzionato, la coda invece di puntare verso il basso punta adesso verso l’alto, inoltre vengono aggiunte le iniziali di Scuderia Ferrari (S F), le tre strisce in alto con i colori della bandiera italiana (verde, bianco, rosso) e lo sfondo giallo canarino, il colore di Modena, città di Enzo Ferrari.

Oggi il cavallino rampante è un marchio registrato della Ferrari e nel 2014, per la seconda volta consecutiva, è il marchio più influente al mondo in assoluto: il simbolo del cavallino rampante è riconoscibile in tutto il mondo anche dove non ci sono ancora le strade.

Una squadra di baseball coreana, gli Hanwha Eagles, ha collezionato qualcosa come 400 sconfitte negli ultimi cinque anni. I tifosi  sono stati soprannominati i “Buddhist Saints” per la loro pazienza infinita e per questo motivo hanno conquistato la simpatia di tutti gli avversari. Però perdere non piace a nessuno e purtroppo la pazienza non si è dimostrata veramente infinita perciò i tifosi degli Hanwha Eagles hanno piano piano abbandonato la loro abitudine di andare allo stadio non partecipando più agli appuntamenti sportivi della loro squadra. Perdere è brutto ma perdere in uno stadio semi-vuoto piace ancora meno quindi i dirigenti degli Hanwha Eagles hanno avuto un’idea che per alcuni viene considerata geniale, per altri folle: utilizzare dei tifosi robotici.

Allo stadio degli Hanwha Eagles i tifosi umani sono stati rimpiazzati con dei manichini robot. Ma la funzione dei robot non si limita a occupare il seggiolino, i manichini riescono a simulare il vero e proprio tifo da stadio. I robot non sono autonomi ma vengono controllati dai tifosi in carne e ossa utilizzando internet da PC o da smartphone. In questo modo anche chi non vuole venire o non può venire allo stadio può tranquillamente, dalla propria poltrona di casa, incitare la propria squadra. I tifosi robot sono in grado di rispondere a tutta una serie di messaggi mandati dai supporter da casa ai quali viene data anche la possibilità di caricare l’immagine del proprio viso sull’automa acquistato così da differenziare i manichini l’uno dall’altro.

Questa idea potrebbe rivoluzionare il concetto di tifo. Certamente la soluzione dei tifosi robot non potrebbe mai sostituire il calore umano dato dagli spettatori in carne e ossa ma i manichini computerizzati possono fare la ola e cantare i cori come lo farebbe la loro controparte umana senza che ci possano essere problemi di invasioni di campo e danni alle strutture causati da tifosi ubriachi o violenti. Solo il tempo ci potrà dire se sarà questo il futuro del tifo allo stadio: staremo a vedere.

Fino a poco tempo fa giocare ai videogiochi poteva essere considerato come una perdita di tempo e i videogiocatori accaniti come persone senza vita sociale ma adesso le cose sono cambiate. Infatti i videogiochi sono ora diventati degli sport a tutti gli effetti mentre i videogiocatori dei veri sportivi.

Bisogna ringraziare l’Associazioni sportive e sociali italiane (ASI) che è stata riconosciuta dal CONI e ha dato vita al settore GEC (giochi elettronici competitivi). La GEC diventa quindi l’organizzazione che in Italia si occupa di regolamentare gli eSport (Sport elettronici). I videogiocatori professionisti possono perciò tesserarsi e ottenere un riconoscimento nazionale e internazionale al pari degli atleti degli sport tradizionali. L’obiettivo del videogamer è lo stesso degli altri sportivi: diventare il numero uno, il fenomeno dei videogiochi trionfando in competizioni nazionali e internazionali. I giochi riconosciuti come eSport sono per ora solo questi: League of Legend, Heroes of the Storm, Dota 2, Heartstone, Starcraft 2, Street Fighter, FIFA, Tekken, The King of Fighters, Counter-strike: global offensive, Call of Duty: Advanced Warfare.

Pietro Soddu, il direttore operativo di GEC, ha spiegato: “quello che vogliamo fare è avvicinare le persone al concetto di gioco e istruire sul come giocare, in modo anche competitivo, nel rispetto della salute e della persona”. Infatti i gamer devono seguire un rigido regolamento dove tra l’altro ci sono anche delle precise regole sulla salute dell’atleta: sono vietate le droghe, l’alcool e durante la gara non si può fumare. Poi l’aspetto dell’allenamento viene spesso sottovalutato in questa disciplina: non ci si limita solo a comprendere a fondo le regole del gioco ma anche ad ottimizzare qualunque aspetto tecnico. Gli eSport sono anche democratici perché permettono a chiunque abbia un computer, un mouse e una tastiera di giocare e di scalare graduatorie di livello.

Tutto questo lavoro è stato fatto per allineare l’Italia al resto del mondo dove la presenza di queste realtà è già molto solida. Infatti l’Italia in questo sport è molto indietro rispetto ad altri paesi dove il movimento è molto diffuso e il gamer professionista viene retribuito con uno stipendio al pari o addirittura superiore di qualsiasi altro sportivo.

Per quanto riguarda lo spettacolo c’è da sottolineare come al gamer tocca scontrarsi non solo con gli avversari ma anche con il gioco stesso: la variabilità dettata dall’equazione non prevedibile crea un’esperienza agonistica di alto livello e un vero e proprio show con tanto di seguito di grande pubblico. In Italia quello che manca è un ponte che colleghi il mondo degli eSport con chi non li pratica in prima persona. Infatti con un evento eSport è possibile accogliere un gran numero di spettatori come è successo durante le finali mondiali di “League of Legend” dove il Sangam Stadium di Seul è stato addirittura riempito da 40 mila persone.

Forse in pochi ne sono a conoscenza ma la Formula 1 ha avuto anche piloti del gentil sesso. Le donne che hanno preso parte ad almeno un Gran Premio dal 1950 ad oggi sono cinque e ben tre di loro sono italiane.

La prima donna a sedere su una monoposto di Formula 1 è stata la napoletana Maria Teresa de Filippis. Prese parte in totale a cinque Gran Premi tra il 1958 e il 1959 ottenendo come miglior risultato solo un 10° posto a SPA Francorchamps in Belgio.

Molto più ricca è stata invece la carriera dell’alessandrina Maria Grazia “Lella” Lombardi che tra il 1974 e il 1976 ha partecipato a 17 gran premi e guidato tre vetture diverse: una March, una RAM e una Williams. Lella, con un 6° posto nel GP di Spagna, è stata l’unica pilota donna della storia ad andare a punti nella Formula 1.

Il 1976 al GP della Gran Bretagna  c’erano due donne a tentare la qualificazione: una era Lella Lombardi mentre l’altra era l’inglese Divina Mary Galica. Divina Galica prima di entrare nel mondo delle corse era stata campionessa nello sci alpino e olimpionica in tre edizioni dei giochi invernali. In Formula 1 disputerà tre gran premi senza però mai ottenere la qualificazione.

Per la sudafricana Desirè Wilson c’è soloun gran premio registrato nel 1980 in Gran Bretagna dove non riuscì a qualificarsi, ma la pilota ha gareggiato anche nel GP del Sudafrica del 1981, poi cancellato dal calendario per ragioni politiche, dove fu protagonista di un’escursione nei prati che gli permise di sorpassare temporaneamente piloti più veloci come Nigel Mansell.

Ultima donna a prendere parte al circo della Formula 1 è stata la romana Giovanna Amati che debuttò nel 1992 come seconda guida ufficiale della Brabham. A causa della poca esperienza e dell’auto poco performante non riuscì a qualificarsi ai primi tre GP e fu quindi sostituita da Damon Hill.

Ma la storia delle donne in Formula 1 non finisce qua. Nel 2012 la spagnola Maria De Villota è stata ingaggiata dalla Marussia come Test Driver ma la sua storia non è finita nel migliore dei modi infatti a seguito di complicazioni dovute ad un bruttissimo incidente in un test sul circuito di Duxford la pilota spagnola è morta nell’ottobre del 2013. Intanto per il campionato 2015 la Williams ha confermato come test driver la pilota tedesca Suzanne Wolff moglie di Toto Wolff, l’amministratore delegato della Mercedes AMG F1.

Riuscirà Suzie Wolff a diventare la sesta donna a correre un gran premio di Formula 1?

Il calcio, come è noto, non è uno sport per signorine e il rischio di farsi male seriamente esiste. Tanti sono stati i casi di infortuni gravi nella storia del calcio causati o dal difensore criminale di turno o da scontri fortuiti o ancora da un piede poggiato male. Gli infortuni, purtroppo, nella loro drammaticità e nella loro spettacolarità fanno parte del gioco del calcio. La sfortuna è ovviamente una componente determinante in questo senso. Ma nella sfortuna bisogna anche essere fortunati perché seppure ci sono stati tanti casi di calciatori che sono riusciti a riprendersi ci sono molti altri che hanno dovuto chiudere la carriera nel peggiore dei modi.

Nel 2008 il difensore Martin Taylor è diventato tristemente celebre per essere stato l’autore di un terribile infortunio ai danni dell’attaccante dell’Arsenal Eduardo dopo solo due minuti dal fischio di inizio: per Taylor c’è stato il cartellino rosso e tre giornate di squalifica, per Eduardo una frattura esposta della tibia e del perone nonché la distorsione della caviglia e quindi 9 mesi e mezzo di stop. Altro intervento da criminale entrato nella storia è quello di Stephen Hunt su Peter Cech: nel 2006, dopo soli 16 secondi dal fischio di inizio, Hunt non toglie il piede sull’uscita del portiere del Chelsea e gli frattura il cranio. Dopo aver recuperato dall’infortunio Cech porta un caschetto protettivo per evitare altri danni alla testa che ne comprometterebbero la carriera sportiva. Ma il premio per l’entrata più criminale in assoluto va a Axel Witsel che nel 2009 interviene direttamente sulla caviglia del polacco Marcin Wasilewski causandogli una doppia frattura di tibia e perone: Witsel è stato immediatamente espulso, ha ricevuto una squalifica di 8 giornate dalla federcalcio belga e dopo aver ricevuto minacce di morte gli è stata assegnata una scorta dalla polizia. Inoltre il calciatore belga è stato inserito dal quotidiano “Het laatste Nieuws” tra le persone più spregevoli dell’anno al pari dell’assassino di Dendermonde.

Ma i danni maggiori arrivano quando meno te lo aspetti cioè negli scontri fortuiti. In un Manchester United – Coventry del 1996 il difensore del Coventry David Busst sullo sviluppo di un calcio d’angolo va a scontrarsi con i reds Irwin e McClair. Il risultato è terribile: frattura scomposta di tibia e perone con rischio di amputazione della gamba. Il portiere Schmeichel e tutti quelli che hanno assistito all’incidente hanno avuto bisogno dello psicologo per superare il trauma talmente che la dinamica dell’infortunio è stata scioccante. Sono poi servite ben 26 operazioni per far ritornare a correre Busst il quale però, su consiglio dei medici, decise di abbandonare la carriera calcistica.

Poi ci sono ci sono quei casi in cui si cade per terra senza che ti tocca nessuno perché il danno te lo sei provocato, senza volerlo, da solo. Come è successo a Ronaldo “O Fenomeno” quando vestiva i colori neroazzurri dell’Inter. Il 1999 durante una partita contro il Lecce il calciatore brasiliano poggia male un piede nell’anticipare un avversario e si lesiona il tendine rotuleo del ginocchio destro. Dopo sei mesi e un intervento chirurgico Ronaldo riprende a giocare ma il 2000 durante la finale d’andata di Coppa Italia il ginocchio destro non riesce a resistere alle sollecitazioni imposte dal calciatore e il tendine rotuleo si rompe completamente. Stavolta per ritornare a giocare ci è voluto un altro intervento chirurgico e più di anno tra convalescenza e riabilitazione.

Segnare un gol da sempre una grande gioia ma quando il gol lo segna Aaron Ramsey prima di festeggiare ci si chiede: “chi morirà adesso?”. Perchè ogni volta che segna muore un volto noto o un personaggio importante. Effettivamente al gol del calciatore gallese segue spesso una morte illustre e sebbene qualcuno ritiene che su queste cose sarebbe meglio non divertirsi c’è invece chi ci ha voluto scherzare su e ha battezzato questo particolare fenomeno “la maledizione di Aaron Ramsey”.

Ramsey esordisce nel calcio professionistico indossando la maglia del Cardiff City e con le sue ottime prestazioni attira l’attenzione di club importanti. A seguito del grande interesse di Arsene Wenger il mediano gallese si trasferisce all’Arsenal. Ramsey colleziona 27 presenze con i Gunners prima di subire un brutto infortunio che lo tiene lontano dai campi da calcio per 9 mesi. Una volta guarito, l’Arsenal manda il calciatore  in prestito prima al Nottingham Forest e poi al Cardiff City per fargli ritrovare la forma migliore. Poi nel febbraio del 2011 viene richiamato all’Arsenal da Wenger.

Il 1 maggio 2011 Aaron Ramsey ritorna al gol in Premier League in una partita contro il Manchester United e il giorno dopo muore Osama Bin Laden. E’ questo il primo decesso che da inizio alla maledizione e alla scia di “vittime” che il calciatore mieterà a suon di gol. Il 2 ottobre 2011 dopo una rete segnata al Tottenham muore il giorno successivo Steve Jobs. Agata Christie diceva che “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza ma tre indizi fanno una prova”, perciò manca il terzo caso di morte sospetta per dimostrare che non si tratta di banale casualità. E la terza vittima non tarda ad arrivare, infatti il 19 ottobre 2011 Ramsey fa un gol al Marsiglia e l’indomani viene ucciso Gheddafi.

La scia di vittime illustri continua: l’11 febbraio 2012 Ramsey segna al Sunderland e il giorno dopo Whitney Houston viene trovata morta per overdose, il 15 maggio 2013 il gallese fa un gol al Wigan e il dittatore argentino Jorge Videla muore dopo ventiquattro ore, il 30 novembre 2013 dopo un gol al Cardiff muore il giorno successivo l’attore Paul Walker, il 10 agosto 2014 al gol di Ramsey nella supercoppa inglese contro il Manchester United segue il giorno dopo la morte di Robin Williams.

Ultima “vittima” di Aaron Ramsey è il cantante Mango stroncato da un infarto durante un concerto nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 2014 dopo che il 6 dicembre il calciatore gallese aveva siglato una rete contro lo Stoke City. Su facebook il fenomeno ha avuto grande successo infatti sono state create numerose pagine a sfondo comico come “Salvare un gol di Ramsey è come salvare la vita a qualcuno” oppure “Aaron Ramsey che miete vittime ad ogni gol”. Intanto i bookmaker si stanno già interrogando su chi sarà il prossimo personaggio famoso a subire il destino della maledizione.

La battaglia di palle di neve, il gioco che da secoli diverte i bambini di tutto il mondo, è diventata un vera e propria competizione sportiva. Sono stati i giapponesi a trasformare quello che era solo un gioco per bimbi in uno sport a cui hanno dato il nome di “Yukigassen”. Il termine Yukigassen nasce infatti dall’unione di “Yuki” che significa “neve” e di “Gassen” che si traduce con “battaglia”. Il movimento sportivo vanta oggi molte squadre in tutto il mondo e prestigiose competizioni internazionali.

Le regole del gioco sono molto semplici: due team composti da sette giocatori si affrontano con lo scopo di eliminare gli avversari colpendoli con una palla di neve. Ogni squadra ha a disposizione 270 palle di neve e la partita dura un massimo di tre tempi di tre minuti l’uno. Alla fine vince la squadra che ha eliminato tutti gli avversari o ha più uomini ancora in gioco al termine dei minuti regolamentari o è riuscita ad impossessarsi della bandierina della squadra avversaria.

Il gioco ha avuto uno straordinario successo soprattutto nei paesi scandinavi dove ovviamente la materia prima non manca. In particolare la Finlandia, patria degli sport più strani come “il lancio del telefonino” o “la corsa con la moglie in spalla”, ha accolto con grande entusiasmo lo Yukigassen. Proprio in Finlandia ormai da più di venti anni si organizza la competizione di Yukigassen più importante d’Europa: si svolge in Lapponia nella città di Kemijarvi e l’edizione 2015 è in programma dal 27 al 29 marzo. Per partecipare a questa divertente competizione serve avere una squadra composta da nove giocatori, sette titolari e due riserve, almeno tre dei quali devono essere donne. È necessario inoltre che tutti i giocatori indossino un casco e una divisa da hockey e ovviamente serve essere ottimi lanciatori. Alla fine della competizione non solo è premiata la miglior squadra ma viene anche assegnato un premio per “il miglior costume” e il “premio fair play”.

Segnare un gol regala sempre grandissime emozioni che sia la finale di Champions League oppure la classica partita del sabato sera sul campetto di periferia. Il momento successivo a quando la palla supera la linea tra i pali è quello in cui i calciatori fanno esplodere tutta la loro gioia. Tutti si ricorderanno le esultanze di Pippo Inzaghi che correva e urlava a squarciagola ad ogni gol come se fosse sempre quello dell’ultimo minuto del mondiale di calcio. Ma non tutti i calciatori adottano lo stile “corri e non voltarti”, del quale la migliore interpretazione va sicuramente a Marco Tardelli nella finale mondiale Italia-Germania 3-1, altri preferiscono esultanze più fantasiose, spettacolari e certe volte pericolose…

E’ vero, le esultanze possono diventare pericolose, l’ha imparato anche il laziale Antonio Candreva nell’ultima giornata di serie A. Dopo aver segnato al Palermo ha iniziato a correre verso i suoi tifosi ma purtroppo è scivolato andando a sbattere sulla grata della recinzione con il ginocchio. Molti altri dopo il gol preferiscono scavalcare i cartelloni pubblicitari per andare verso la curva ma attenzione perché è facile scivolare come è successo a Bonaventura sempre domenica scorsa o a Bonucci qualche settimana fa e ancora a Zidane in un Juventus-Udinese. Ma il premio per l’esultanza più pericolosa lo vince Joel del Coritiba che dopo aver segnato uno straordinario gol in contropiede al San Paolo salta oltre i cartelloni pubblicitari e atterra rovinosamente nel buco della scalinata che porta al tunnel degli spogliatoi: fortunatamente per il calciatore brasiliano non ci sono stati problemi fisici, solo tanta paura.

Il primo che ha innovato il modo di festeggiare i gol lanciando le cosiddette “esultanze fantasiose” è stato il camerunense Roger Milla al mondiale del 1990 che ad ogni sua marcatura faceva seguire una danza vicino la bandierina del calcio d’angolo. Questa esultanza ha divertito così tanto il pubblico che subito ha fatto il giro del mondo e così sull’esempio di Milla molti altri calciatori hanno lanciato veri e propri mini-spettacoli a seguito dei loro gol: la mitragliatrice di Batistuta, le capriole di Oba Oba Matins, il salto mortale di Hernanes o ancora l’aeroplanino di Montella sono solo alcuni esempi.

Ma il premio oscar per le esultanze va sicuramente ai calciatori della squadra islandese dello Stjarnan che nel 2010 si sono conquistati il loro quarto d’ora di gloria con un video su youtube che raccoglie delle vere e proprie rappresentazioni coreografiche che i giocatori mettevano in scena ad ogni loro gol. Tra le tante coreografie dello Stjarnan quella che avuto più successo è il pescatore: l’autore del gol mimando una canna da pesca tira un suo compagno di squadra che fa il pesce e alla fine mentre il pescatore con alcuni compagni mantiene il calciatore-stoccafisso un altro ancora finge di scattare la foto ricordo. Una esultanza davvero bizzarra.

Dopo due mesi di allenamento in Etiopia Mohamed Farah ritorna a calcare i palcoscenici internazionali dell’atletica leggera e lo fa nel migliore dei modi. Sabato scorso al meeting di atletica indoor di Birmingham l’atleta britannico firma un capolavoro realizzando un’impresa sulla distanza poco praticata delle due miglia (3218 m). Mohamed Farah, per tutti Mo, ferma il cronometro a 8’03’’40 ed è record del mondo. Cade così il precedente primato di 8’04’40 resistito per bene sette anni e appartenuto a Kenenisa Bekele, uno che ha fatto la storia del mezzofondo.

La gara di Birmingham dopo soli 800 m era già diventata una lotta a quattro con lo statunitense Bernard Lagat, il giapponese Suguu Osako e il keniano Paul Koech a inseguire Mo Farah. Però a 1200 m dal traguardo nessuno più è riuscito a tenere il passo del campione britannico. La corsa di Farah è stata tutta in progressione: un primo miglio concluso in 4’03’’9 e un secondo in 3’59’’5 con gli ultimi 400 m coperti in soli 57’6. La cosa straordinaria è che al passaggio dei 3000 m il cronometro diceva 7’33’’1 e sarebbe stato record nazionale.

Curiosamente per il trentunenne plurimedagliato Mo Farah, campione olimpico sui 5000 m e sui 10000 m piani, questa è la prima volta che riesce a stabilire un record del mondo nella sua eccezionale carriera. E pensare che la settimana che ha preceduto la gara non era iniziata bene. Infatti Mo era stato accusato dal suo compagno di nazionale Andy Vernon di scegliersi sempre gare senza veri avversari. Effettivamente la vittoria di Farah a Birmingham è stata schiacciante ma visto l’eccezionale tempo difficilmente ci sarebbe potuto essere qualche atleta al suo stesso livello.

Tra le tante maratone che è possibile trovare in giro per il mondo c’è n’è una organizzata in Russia che viene corsa sul ghiaccio. La maratona di Baikal, considerata da molti la maratona più dura al mondo, prende il nome dal lago Baikal che si trova in Siberia perché viene corsa proprio sul lago omonimo, nel periodo dell’anno in cui sull’acqua si forma uno strato di ghiaccio talmente spesso che è possibile correrci sopra con una certa sicurezza.

L’evento viene organizzato la prima volta nel 2004 con l’intenzione di sensibilizzare la popolazione locale sul problema dell’acqua potabile ma la particolarità della competizione ha attirato ogni anno sempre più atleti tra i più temerari di tutto il mondo diventando una vera e propria meta per gli sportivi che vogliono portare al limite il proprio fisico. Infatti i 42 chilometri e 195 metri del percorso, nonostante siano tutti perfettamente pianeggianti, vengono corsi in condizioni climatiche terribili: temperature bassissime fino a -30° e cambiamenti meteorologici bruschi che alternano un sole tiepido a forti raffiche di vento gelido fanno di questa maratona la più difficile da completare.

Ma sono proprio queste avverse condizioni che hanno reso la maratona di Baikal destinazione di centinaia di atleti desiderosi di mettere alla prova il proprio fisico. Comunque agli sportivi viene sempre garantita la messa in sicurezza del percorso da parte dell’organizzazione. A garantire l’incolumità dei partecipanti c’è un continuo monitoraggio del ghiaccio così da individuare le zone in cui potrebbe cedere ed evitarle sul percorso di gara e comunque per le situazioni non prevedibili ci sono molti addetti ai soccorsi pronti ad intervenire in caso di emergenza.

La prima pista di atletica rettangolare

Oltre alla “Grande Muraglia” e l’”Esercito di Terracotta” la Cina possiede da poco anche un’altra singolarità che poco ha a che fare con la storia. Nella Cina nord orientale e più precisamente nella provincia di Heilongjiang è possibile trovare la prima e unica pista di atletica rettangolare.

Per capire il perché della singolare forma bisogna far partire la storia da quando l’amministrazione locale della città di Tonghe Xian decide che il suo vecchio stadio di atletica è ormai troppo vecchio e che si deve assolutamente rimetterlo a nuovo. I lavori di ristrutturazione però procedono a rilento e si accumula un certo ritardo per la consegna. Intanto inizia a circolare la voce che, in visita alla città, sarebbero arrivati alti dirigenti del partito comunista. Quindi la ditta che si occupa della ristrutturazione, preoccupata per una ispezione delle alte cariche, trova la soluzione di velocizzare le operazioni prendendo la particolare decisione di costruire la nuova pista di atletica con le curve di novanta gradi, creando una vera e propria pista di atletica rettangolare.

La scelta alquanto singolare nasce dal fatto che per il progetto di una pista di atletica con la normale forma ellittica servivano dei tecnici difficilmente reperibili nel breve periodo. Inoltre la vecchia pista era talmente usurata che non poteva essere utilizzata come linea guida per la costruzione di una nuova al di sopra. Ecco perché si è optato per la scelta più pratica e più veloce ma sicuramente non ottimale di creare una pista rettangolare.

Un rappresentante della ditta che ha eseguito i lavori ha dichiarato: “L’abbiamo disegnata così per essere pronti nei tempi previsti” e ha poi aggiunto “Pensiamo che sia brutta ma non la cambieremo finchè non ci chiederanno di farlo”.

Il problema di una pista rettangolare non è però solo l’estetica. Oltre al fatto che non rispetta i requisiti di nessuna federazione di atletica leggera la particolare forma del circuito espone gli atleti al rischio di infortunio. Infatti i cambi di direzione netti percorsi ad alta velocità sollecitano eccessivamente sia l’apparato muscolare che scheletrico degli sportivi. Sempre a causa delle curve a gomito la collisione tra atleti è inevitabile. Praticamente la pista è da rifare perché è assolutamente inadatta ad ospitare competizioni.

Unica nota positiva è che tutto il resto dello stadio è invece stato ristrutturato seguendo le normali linee guida: le sedie, il prato e i parcheggi sono stati infatti realizzati a regola d’arte.

Il catenaccio esiste anche nella pallacanestro

Stati Uniti d’America, un sabato sera come tanti, si affrontano Bibb County e Brookwood e il match si conclude con la vittoria dei padroni di casa per 2-0. Sembrerebbe tutto normale se fosse una partita di calcio invece l’incontro valevole per la High School Americana è di pallacanestro…

La partita inizia e, dopo un tiro da tre sbagliato da un suo compagno di squadra, Brandon Rutledge recupera il rimbalzo e segna il primo e unico canestro della partita dopo 15 secondi. Da quel momento in poi si è assistito ad un eccellente gioco difensivo sia da una parte sia dall’altra. Le statistiche del match ci dicono che in quaranta minuti ci sono stati solo sette tiri di cui uno solo realizzato. Praticamente la partita è durata solo un quarto di minuto dato che non è successo più nulla dopo l’unico canestro.

La Bibb County, come da pronostico, ottiene quindi la sua ventiduesima vittoria in stagione mentre il Brookwood riduce al minimo i danni (e meno di così proprio non poteva fare) contro un avversario qualitativamente superiore. Il coach del Brookwood, Thad Fitzpack, al termine del match ha dichiarato: “L’intenzione della mia squadra era di riposare in attacco e di dare tutto in difesa”. Probabilmente i suoi ragazzi hanno esagerato nel mettere in pratica le direttive del loro allenatore che ha così concluso: “non volevamo giocare una gara del genere”.

Comunque c’è una giustificazione ad un risultato così clamoroso: entrambe le squadre erano alla loro quarta partita settimanale perciò i due coach, con l’intenzione di far riposare le prime linee, hanno deciso di far giocare i più giovani. La scelta di dare spazio ai ragazzini però non si è rivelata una grande idea visto lo scadente spettacolo a cui ha dovuto assistere il pubblico.

Con il punteggio di 2-0 questa partita è entrata nella storia della pallacanestro, condividendo il record negativo di segnature con un altro match giocato nel 1977. Infatti ben 38 anni fa la sfida tra Durham Hillside e Roxboro Person finì con il medesimo punteggio e con la stessa noia da parte del pubblico che assisteva alla partita.

Bergamasco e Italia fanno subito record al Sei Nazioni

Il Sei Nazioni è appena iniziato ma la nazionale italiana ha potuto subito vantare un record ancor prima della partita d’esordio. La nazionale azzurra è infatti l’unica tra le sei partecipanti che ha in rosa un rugbista presente sin dalla prima edizione del Sei Nazioni.

Mauro Bergamasco, rugbista delle Zebre Rugby e della nazionale, è infatti al Sei Nazioni 2015 l’unico atleta che era presente nella prima edizione del prestigioso torneo di rugby. Correva l’anno 2000. Con quella edizione, con l’ammissione dell’Italia, la competizione ha cambiato nome da “Cinque Nazioni” a “Sei Nazioni”. Inoltre Bergamasco giocò anche per 64 minuti il 5 febbraio 2000 nella straordinaria partita d’esordio degli azzurri vinta contro la Scozia per 34-20.

Il rugbista italiano è tra l’altro il giocatore con la carriera più lunga in azzurro essendo trascorsi ben 16 anni dalla prima volta che ha vestito la maglia della nazionale. Bergamasco ha debuttato in nazionale il 18 novembre 1998 segnando due mete nella vittoria contro l’Olanda per 67-7. Tra i tanti record di questo straordinario campione c’è n’è anche uno che poco ha a che fare con l’età: Bergamasco ha segnato la meta più veloce della storia del Sei Nazioni avendo schiacciato il pallone in area di meta dopo soli 19 secondi dal fischio di inizio di Scozia-Italia del 2007.

Il rugbista azzurro nonostante i suoi record di longevità non è però il più “vecchio” giocatore del Sei Nazioni di quest’anno. La palma di veccchietto della competizione va a Nick Easter, che con 36 anni è il più anziano mentre il più giovane è invece, con soli 19 anni, il gallese Morgan Tyler che aveva appena due anni quando Mauro Bergamasco giocò la sua prima partita in serie A.

L’eroe Barry guida la Costa d’Avorio alla vittoria

La Costa d’Avorio torna ad alzare la coppa di campione d’Africa per la seconda volta nella sua storia e a 22 anni dal primo trionfo. La finale molto tattica e povera di emozioni al triplice fischio dei tempi supplementari si conclude a reti bianche e sono necessari i rigori per decidere il campione. È sembrata una fotocopia della finale di Coppa d’Africa del 1992 che vide vincitrice la Costa d’Avorio proprio contro il Ghana dopo aver tirato ben 24 rigori di cui 21 trasformati, anche in quel caso la partita terminò ai tempi supplementari senza alcun gol.

Nell’edizione di quest’anno i rigori tirati sono stati 22 di cui solo 17 trasformati. E pensare che dopo quattro rigori, due per squadra, il Ghana conduceva per due a zero e tutto faceva credere ad un finale veloce e ormai scritto. Invece da questo momento inizia lo show di Boubacar Barry, portiere della nazionale ivoriana: para il terzo rigore del Ghana e ipnotizza Acheampong che spara alto sul quarto. Ci pensano quindi le reti degli ivoriani Aurier e Doumbia a riportare il punteggio in parità e infine i gol dei due capitani Andrè Ayew e Yaya Tourè mandano i rigori a oltranza.

La serie infinita dei tiri dal dischetto si conclude con i due portieri. Barry para prima in tuffo il rigore tirato dal suo collega di reparto. Stanchissimo ci mette troppo tempo a rialzarsi e viene ammonito ma una volta in piedi posiziona il pallone sul dischetto e supera il portiere ghanese Brimah con un tiro angolato. È Barry l’eroe della partita che tra l’altro non doveva nemmeno giocare. Infatti il 35enne portiere ivoriano era il secondo nelle gerarchie di mister Renard e ha giocato la finale in sostituzione di Sylvain Gbohouo sofferente per un infortunio alla coscia, quando si dice il destino…

Gli imitatori giapponesi che replicano…l’Atalanta!

Questa volta i giapponesi hanno superato i cinesi in fatto di copiare il made in Italy. Il club di calcio più importante della città di Osaka, il Gamba Osaka, ha copiato fedelmente niente poco di meno che la nostra Atalanta. Gli imitatori, se così si possono chiamare, del Gamba Osaka vantano nel loro palmares una partecipazione al mondiale per club nel 2008, competizione alla quale si sono qualificato avendo vinto la coppa d’Asia lo stesso anno. È in quell’ occasione che per la prima si è notata la straordinaria somiglianza del club nipponico con il club bergamasco.

L’eccezionale corrispondenza tra i due club non si limita soltanto ai colori della maglia che sono il nero e l’azzurro ma i tifosi – imitatori del Gamba Osaka hanno avuto cura nel replicare ogni aspetto caratterizzante della tifoseria atalantina. Innanzitutto il nome della tifoseria che richiama il nome di uno storico gruppo di ultras bergamaschi, “Brigate neroazzurre Osaka 1999”, scritto proprio così in italiano. Poi il nome della curva: “Curva Nord Osaka”. Anche il testo e la musica dei cori sono riprodotti fedelmente, cantati dai tifosi dell’Osaka in lingua italiana e solo le parole in dialetto bergamasco sono state tradotte in giapponese.

Infine sugli adesivi del Gamba c’è la Skyline della città Osaka che vorrebbe replicare Bergamo Alta e striscioni e bandiere che riportano le frasi in lingua italiana perfettamente uguali alle scritte su bandiere e striscioni dei supporter atalantini, cambia solo la dicitura “Atalanta” con “Gamba Osaka”.

Si può quindi parlare di una vera e propria clonazione dell’Atalanta da parte degli giapponesi di Osaka. Dopo la diffusione di questa curiosità sul palcoscenico internazionale c’è chi auspica a un gemellaggio tra il club bergamasco e quello di Osaka piuttosto che reazioni di altro tipo da parte dei tifosi dell’Atalanta. Chi lo sa come andrà a finire.

L’altra faccia del XLIX Super Bowl

Ogni anno il Super Bowl fa parlare di se oltre che per il risultato sportivo anche per tanti altri eventi collaterali, nei quali lo sport in verità conta poco o niente. L’edizione 2015 non ha deluso e ha portato innovazione ed evoluzione rispetto alle precedenti.

Stavolta la finale del campionato nazionale di NFL ha visto affrontarsi i New England Patriots e i Seattle Seahawks. Le polemiche hanno fatto da padrone nella vigilia della partita: i Patriots sono stati accusati di aver sgonfiato di proposito i palloni utilizzati nella partita che ha preceduto la finale per facilitarne la presa. Alla fine sono stati proprio i Patriots a vincere il XLIX Super Bowl come pronosticato dai bookmaker. La partita si è giocata in Arizona nell’ University of Phoenix Stadium ed è stata la prima volta che si è utilizzata un’illuminazione a LED per far brillare lo stadio.

 

Si è raggiunto un nuovo record di costo per i break pubblicitari di 30 secondi lanciati durante la partita e pagati fino a 4.5 milioni di dollari l’uno. La FCA, prima Chrysler Group, è il secondo investitore di sempre negli spot del Super Bowl avendo speso tra il 2010 e il 2014 circa 90 milioni di dollari e anche quest’anno non si è smentita: ha acquistato tre spazi pubblicitari e li ha dedicati alla Jeep Renegade e alla nuova Fiat 500X. Il XLIX Super Bowl sarà ricordato anche perchè è stata la prima volta che un governo straniero ha acquistato uno spazio pubblicitario: l’Ecuador ha comprato i 30 secondi per promuovere il turismo nel suo paese mostrando nello spot le sue spiagge, le sue montagne e la sua natura incontaminata.

Insomma è stato un Super Bowl pieno di novità e di notizie curiose. Sicuramente il prossimo ce ne riserverà delle altre a partire dal numero romano che per la prima volta non ci sarà. Infatti solo per il 50° Super Bowl si è deciso di utilizzare il numero arabo in quanto il numero romano corrispondente è la “L” simbolo universale di “losers” (perdenti) non proprio appropriato per una finale nazionale.

Il portiere salva la squadra…segnando un gran gol

Nella 21° giornata di Lega Pro la Lupa Roma ospita il Messina: la partita è molto delicata per entrambe le fazioni che hanno bisogno di punti per tirarsi fuori dalla zona playout e cercare una salvezza tranquilla.

Sembra tutto facile per la Lupa Roma che sostenuta dai propri tifosi passa in vantaggio a metà del primo tempo ma la gioia dura poco. Il Messina non si butta giù e prima del duplice fischio di fine tempo trova in due minuti prima il pareggio e poi il gol del sorpasso: che mazzata per la Lupa Roma.

Alla fine di un secondo tempo senza particolari emozioni ci pensa il portiere della Lupa Roma Francesco Rossi a mettere le cose a posto in pieno recupero. L’estremo difensore riceve di testa il calcio d’angolo di un suo compagno di squadra e insacca come avrebbe fatto un vero rapinatore d’area. Grande gioia dopo la rete: Rossi inizia prima a correre verso gli uomini della sua panchina che entusiasti dell’impresa già stavano correndo per abbracciarlo, poi ci ripensa e corre verso la sua area di rigore, si butta per terra e i suoi compagni gli vanno addosso, tutto sotto la standing ovation dei tifosi della Lupa Roma.

Da Rampulla a Chilavert ce ne sono stati tanti di portieri-goleador nella storia del calcio. Forse per la storia del calcio italiano l’episodio più clamoroso è stato quando nell’ottobre del 2002 l’estremo difensore dell’Inter Francesco Toldo segna al 95° minuto il gol dell’1 a 1 contro la storica rivale Juventus. In quel caso la partita era uno scontro scudetto e quindi aveva tutta un’altra importanza rispetto ad uno scontro salvezza in Lega Pro per giunta…

Ma che importa, non capita tutti i giorni ad un portiere di segnare un gol importantissimo per il prosieguo del campionato, che chissà, forse sarà proprio deciso dall’incornata del portiere-goleador…

Il Messi di ghiaccio alla corte del Real Madrid

Il mese di gennaio è un mese di calciomercato che, al contrario del mercato estivo, ha raccontato raramente di trasferimenti rumoreggianti con nomi altisonanti e cifre da capogiro. Anche quest’anno, almeno per il momento, non c’è stato nessun acquisto che ha fatto veramente rumore. Nella indifferenza quasi totale è passato l’acquisto di Martin Odegaard da parte del Real Madrid….un trasferimento che dovrebbe invece far tanto rumore.

La cosa straordinaria di questo trasferimento non è tanto per la cifra spesa dal Real, appena 3 milioni, ma piuttosto per la giovane età del calciatore: appena 16 anni.

Ma perché il Real Madrid avrebbe acquistato un calciatore giovanissimo e sconosciuto?

A quanto pare Martin Odegaard, centrocampista norvegese, tanto sconosciuto non era visto che negli ultimi tempi ha fatto una sfilza di provini: dal Bayern Monaco al Barcellona, dal Machester United allo stesso Real Madrid. Inoltre i più grandi club europei lo stavano seguendo, probabilmente per i suoi record di precocità. Inserito nella giovanile dello Stromsgodset all’età di 13 anni, ha debuttato nel campionato norvegese in prima squadra a soli 15 anni e 118 giorni (record assoluto del campionato norvegese). Poco dopo è arrivato anche l’esordio nella Nazionale maggiore all’età di 15 anni e 300 giorni.

Dopo aver letto questi numeri quello che può far veramente notizia del trasferimento di Odegaard è la cifra eccessivamente bassa spesa dal Real per averlo nella sua rosa. Acquistare un calciatore per 3 milioni quando fra pochi anni ne potrebbe valere almeno dieci o venti volte tanto potrebbe essere davvero un affare.

Probabilmente il Real Madrid tra i tanti corteggiatori di Martin sarà stato l’unico che ha creduto veramente nel “Messi di ghiaccio”, così viene soprannominato il calciatore norvegese.

Intanto Odegaard è stato aggregato al Castilla (la seconda squadra del Real) sotto la guida di uno che di talento ne capisce qualcosa: Zinedine Zidane. Al francese l’onere e l”onore di prepararlo per l’esordio in prima squadra.

Una cosa è certa, forse quest’anno il trasferimento di Martin Odegaard non ha fatto tanto rumore quanto ci si aspettava, ma si sentirà presto parlare su tutti i giornali di questo giovane talento.

La storia dello sfortunato Montandon

Sportcuriosity è la rubrica con le notizie più curiose e divertenti relative a tutti gli sport del mondo.

Philippe Montandon, capitano del San Gallo, ha deciso di ritirarsi dal calcio per motivi di salute all’età di 32 anni. Con il San Gallo ha all’attivo 181 presenze e 9 gol. In Italia è stato di proprietà del Chievo Verona ma con i Clivensi non ha collezionato presenze perché fu girato dal club veronese subito in prestito al Lugano, club nel quale ha vestito anche la fascia di capitano. Insomma è stata una vera e propria meteora.

Il calciatore, che nella vita fa il difensore, ha deciso per il ritiro dopo aver subito nel corso della sua carriera ben  8 commozioni cerebrali. L’ultima il 9 agosto scorso nella partita di Super League contro i Brodeurs ad Aarau: dopo uno scontro fortuito con un suo compagno di squadra è stato costretto a lasciare il campo al minuto 43.

Il capitano del San Gallo avrebbe voluto riprendere a giocare, ma durante la fase di preparazione fisica degli ultimi mesi sono ritornati continuamente dolori che gli hanno fatto rimandare il rientro sul campo più volte.I dolori  sono stati così intensi che lo hanno costretto, infine, alla decisione di gettare la spugna. Una carriera davvero sfortunata, chiusa anzitempo.

Kubilay Turkylmaz, attuale calciatore del Bellinzona ed ex centravanti della nazionale svizzera, ha dichiarato: “E’ davvero un peccato che debba lasciare per motivi di salute. Philippe ha contribuito a far progredire il calcio svizzero”.

Non si sa ancora cosa farà Montandon una volta appese definitivamente le scarpette al chiodo, di sicuro verrà ricordato dai tifosi del San Gallo come uno dei giocatori più sfortunati di tutti i tempi.

Il portiere goleador segna il 20° rigore

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La Coppa d’Inghileterra, si sa, regala sempre grandi emozioni. West Ham – Everton non è sfuggita a  questa regola non scritta. Per il terzo turno della FA Cup era previsto l’incontro tra West Ham ed Everton ad Upton Park, uno degli stadi storici del calcio inglese. La partita ha visto la squadra di casa, il West Ham, segnare il primo gol. Dopo pochi minuti l’Everton perde un uomo per espulsione. Il vantaggio e la superiorità numerica sembrerebbero mettere in discesa la partita per i padroni casa. Invece gli ospiti riescono a pareggiare segnando un gol che vale i tempi supplementari.

Nell’extra time l’Everton, nonostante uomo in meno, si porta in vantaggio. Il West Ham, costretto ora a rincorrere, trova il pareggio nel secondo tempo supplementare e allunga ulteriormente la durata della partita portandola ai rigori.

La lotteria dei rigori sembra infinita! Sono necessari 20 rigori, 10 per squadra, per concludere l’incontro. Dopo aver terminato la serie a oltranza sono i rigori battuti dai due portieri a decidere la partita: Robles, portiere dell’Everton, va sul dischetto, ma l’emozione lo tradisce e colpisce la traversa. Adrian, portiere del West Ham, è molto più freddo e determinato: supera il suo collega, ancora shockato dal madornale errore, e regala il passaggio del turno alla sua squadra. Il portiere viene travolto dai compagni e portato in trionfo per tutto il campo.

La partita iniziata alle 20:45 si conclude quindi alle 23:35 dopo quasi tre ore dal fischio di inizio. Nel prossimo turno il West Ham affronterà il Bristol che ha sconfitto per 2-0 il Doncaster.